Il 16 Marzo si è svolto il workshop Impact Meets Digital: Empowering Social Impact, di cui il centro di ricerca Markets, Culture and Ethics (MCE) è stato uno dei promotori.
Il workshop ha rappresentato l'occasione per riflettere su come la trasformazione digitale offra l'opportunità di aumentare la capacità di creare empowerment da parte delle organizzazioni del terzo settore. Al tempo stesso però, le tecnologie digitali, con la molteplicità e versatilità dei loro utilizzi, fanno parte di un universo che è ancora avulso dalle pratiche di molti operatori e organizzazioni del terzo settore. Di qui l'esigenza di colmare un gap e permettere a chi opera nel terzo settore di mettere a valore la rivoluzione digitale in atto. Il workshop ha dunque rappresentato l'occasione di incontro tra gli operatori del terzo settore e i tecnici del digitale.
Provengono da diverse parti del mondo, sono laureandi, insegnanti, sacerdoti. Di età e culture diverse, accomunati però dallo stesso interesse per lo studio e l’approfondimento di lingue considerate “morte” o antiche. Per questo hanno preso parte ai corsi estivi di Greco Antico, Ebraico Biblico e Latino ospitati dalla nostra Università e organizzati nel mese di luglio dal Polis Institute di Gerusalemme.
Sherry ha 25 anni, è nata a Taiwan ma vive negli Stati Uniti. Ha frequentato il corso di Greco avanzato: “sto facendo un dottorato in America e insegno greco antico agli studenti. Non mi piace che si consideri il greco antico una lingua morta. È per questo che sono venuta a Roma per partecipare a questo corso”, ci spiega. In aula si parlava solo Greco antico, “trattiamo questa lingua come fosse viva ed è il metodo migliore per impararla”, aggiunge Sherry, che a settembre tornerà in America e proverà a mettere in pratica le competenze che ha appreso in queste settimane.
Peter, invece, ha seguito il corso di Lingua latina; ha 31 anni e viene dall’India. Si trova a Roma da alcuni anni e frequenta l’Istituto Patristico Augustianum: “è stato un mio amico sacerdote a consigliarmi di seguire questo corso: sto studiando la Bibbia e mi serve conoscere, leggere e capire il latino”. Questo corso, racconta ancora Peter, è risultato utile non solo per lo studio della lingua, “ma anche come metodologia che può essere usata per l’apprendimento di altre materie”.
Dal Belgio arriva Madio, giovanissimo di 23 anni, che farà una tesi di master sugli studi di diritto di San Roberto Bellarmino negli ultimi decenni del XVI secolo. Si è iscritto al corso di Latino antico: “per me è stata una necessità, per essere in grado di capire davvero ciò che sto studiando”.
Il Jerusalem Institute of Languages and Humanities è un'istituzione accademica fondata nel 2011 da un gruppo internazionale di studiosi. L’obiettivo è il rinnovamento delle discipline umanistiche attraverso lo studio dei diversi aspetti culturali e in particolare il rilancio delle lingue che sono alla base della civiltà occidentale.
Quando il professor Giacomo Sillari, docente di Epistemologia presso la Luiss Guido Carli, ci ha proposto (su richiesta della maggior parte dei dottorandi!) di approfondire temi di blockchain e bitcoin, non so se mi è partito prima lo sbadiglio o se si è arricciato il capello.
“Ma cosame ne faccio? L’arabo ancora non lo parlo…”: queste, alcune delle considerazioni che mi si sono affacciate nella mente. Una volta a casa, però, seduta alla scrivania con il materiale di fronte, mi sono resa conto di non avere molta scelta: annoiarmi trascinandomi davanti a pagine e pagine di articoli, o tentare di trovarci qualcosa di interessante. Dopo qualche resistenza ho optato per la seconda e vi confesso che non me ne sono affatto pentita! La blockchain ha dell’affascinante, e le sue applicazioni lasciano largo spazio alla creatività.
Volete imbarcarvi anche voi in questo piccolo viaggio?
Quando si parla di blockchain ci si riferisce ad un registro digitale pubblico di transazioni, o più in generale di eventi digitali. Una sorta di data-base (digitale) di dati. La tecnologia blockchain è intrinsecamente connessa al bitcoin, il tanto chiacchierato denaro digitale (sebbene, come vedremo, la tecnologia blockchain possa essere utilizzata in molteplici settori).
L’origine del bitcoin ha del curioso. Nel 2008, un individuo o gruppo di individui sotto il nome di Satoshi Nakamoto rese pubblico l’articolo Bitcoin: A Peer-To-Peer Electronic Cash System, in cui veniva descritto uno scambio di denaro elettronico “alla pari” (peer-to-peer), senza far ricorso ad una “istituzione” centrale garante. Solo qualche mese dopo, il 3 Gennaio 2009, il primo “blocco” (Genesis Block) veniva registrato sul web. Ma più nello specifico, di cosa si tratta?
Come suggerisce lo stesso nome, la “block-chain” è una “catena di blocchi”, in cui ciascun blocco contiene una serie di informazioni, che variano a seconda del tipo di blockchain: nel caso del bitcoin, ciascun blocco contiene informazioni su transazioni economiche. Ciascun blocco è collegato all’altro (si parla infatti di «catena di blocchi») e questo contribuisce a garantire la sicurezza delle informazioni. Infatti, se qualcosa cambia all’interno di un blocco, tale cambiamento viene “registrato” su tutta la catena, rendendola invalida.
La tecnologia blockchain non si limita però solamente al bitcoin e alla finanza: acquisto di beni o servizi, pubblica amministrazione, agri-food, assicurazioni, sono solo alcuni dei settori in cui questa tecnologia si rivela molto promettente. Una delle caratteristiche principali della tecnologia blockchain è di essere una «infrastruttura decentralizzata». E cioè? La blockchain è una rete di relazioni, una rete di scambi, in cui non vi è un’istituzione centrale alla quale gli altri attori devono far riferimento. Nell’infrastruttura blockchain, tutti gli “attori” coinvolti hanno lo stesso peso, e quindi lo stesso potere decisionale.
La decentralizzazione sembra proprio essere una delle parole chiave del nostro tempo. Se ne parla molto, ad esempio, nell’ambito della sharing economy (“ma quante brutte parole tutte insieme!”, starete pensando). L’Oxford Dictionary definisce la sharing economy come un sistema economico in cui beni e/o servizi sono condivisi tra privati, gratuitamente o tramite il pagamento di una fee, solitamente tramite l’utilizzo di internet. Un esempio ben noto a tutti è il servizio di car-sharing, le cui macchine colorate impazzano nelle nostre città. La decentralizzazione si realizza essenzialmente nel fatto che un bene/servizio (la macchina, ad esempio) sia di uso comune, ovvero diversi attori ne possano usufruire alla pari.
Vi è una relazione tra blockchain e sharing economy?
Tanto la blockchain quanto la sharing economy fanno perno sulla decentralizzazione; ci dovrà quindi pur essere una sinergia tra le due! Ebbene sì, e le applicazioni sono indefinite. La tecnologia blockchain, infatti, permette proprio di “abbassare” il livello “decisionale”-operativo agli individui, allontandosi dal meccanismo per cui vi debba necessariamente essere un centro, una terza parte che funga da mediatore o garante. In questo senso, la Blockchain facilita l’emergere di un nuovo tipo di organizzazione: un’organizzazione decentrata.
E proprio su organizzazioni decentrate e sharing economy, Venture Thinking (VT), think tank di imprenditori e filosofi, ha qualcosa da dirci. La fondazione, nata in tempo di pandemia per favorire la collaborazione tra imprenditori, sta portando avanti il progetto Dall’HeadQuarter all’HubQuarter. L’idea è semplice, e allo stesso tempo geniale. Consiste nel mettere a sistema spazi di lavoro, di aziende private o enti pubblici, al fine di creare ambienti di co-working. Daniele Di Fausto, CEO di eFm e founder di VT, lo ritiene il superamento dell’«idea ufficio-centrica del lavoro, per sfruttare i vantaggi della sharing economy». Chiaramente, tecnologia e digitale sono fra gli ingredienti imprescindibili del progetto. Mi domando, allora se, fra gli altri, la blockchain possa essere uno strumento che possa magnificarne l’impatto. Ed effettivamente, scopro che altri progetti di co-working (Primalbase è uno di questi, ad esempio) stanno sperimentando proprio la tecnologia blockchain, attraverso l’utilizzo di digital tokens per abilitare gli utenti all’uso degli spazi.
All’inizio della pandemia, la tecnologia ci ha permesso di “rompere le barriere” portando avanti il nostro lavoro da remoto, nelle nostre case adibite ad uffici. Adesso, questo non è più sufficiente. Rompere le barriere sì, ma questa volta per tornare a stare in relazione, in maniera nuova.
Mi vengono in mente le parole di papa Francesco, lette scorrendo la home di LinkedIn: «Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla».
Il dialogo continua con Daniele Di Fausto, CEO di eFM.