"Famiglia Amoris laetitia": Conosciamo la realtà come figli
Il 2021-2022 è stato indicato da Papa Francesco come Anno della "Famiglia Amoris Laetitia", affidato alla gestione del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, con l'obiettivo di raggiungere ogni famiglia nel mondo attraverso varie proposte di tipo spirituale, pastorale e culturale che si potranno attuare nelle parrocchie, nelle diocesi, nelle università, nell’ambito dei movimenti ecclesiali e delle associazioni familiari. A questo proposito ospitiamo la riflessione del prof. Lluís Clavell, professore emerito della Facoltà di Filosofia.
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In questo Anno della Famiglia, che Papa Francesco ha indetto e che terminerà il 26 giugno 2022, ricordo spesso che siamo tutti figli, che siamo nati per essere padri o madri, dando la vita agli altri. E ogni giorno mi sorprendo sempre di più nel vedere quanto poco spazio viene dato alla famiglia nella riflessione culturale e filosofica contemporanea, e l’uso ideologico che se ne fa, spesso a fini politici.
Dal momento che l’essere un bambino è una realtà così fondamentale, o l’essere padre o madre, o fratelli, mi domando perché questa venga relegata solo al regno dell’etica o agli studi psicologici o sociologici o alle ripercussioni economiche o lavorative? Sembra come se la società fosse composta da individui che si realizzano in un lavoro, e in cui la famiglia è solo la sfera dell’affettività, qualcosa di privato, senza conseguenze per la società.
Qualche anno fa, al Meeting di Rimini per l’amicizia tra i popoli, ci fu una sessione dedicata al libro dell’australiano Paul Glynn, “A Song for Nagasaki” (“Pace a Nagasaki”). Racconta la storia di Takashi Nagai, un medico radiologo e scrittore influente in Giappone, soprattutto dopo il bombardamento nucleare di Nagasaki. Nagai, figlio di un medico, si prepara a diventare medico con un grande desiderio di servire, ma anche con una visione dell’uomo come semplice organismo biologico.
Brillante negli studi, buon giocatore di basket, al terzo anno deve interrompere gli studi perché sua madre ha un ictus. Suo padre lo avverte e lui prende immediatamente il treno per vederla. Arriva a casa e la trova ancora cosciente ma incapace di parlare. Lo sguardo affettuoso della madre, nei suoi ultimi dieci minuti di vita, mostra chiaramente a Takashi che ella non può essere solo un organismo biologico. Questo sguardo riflette senza dubbio l’esistenza di una realtà spirituale che persiste oltre la morte. Così, in un colpo solo, crolla il riduzionismo materialista dei suoi studi e dell’ambiente universitario che lo circonda.
Tornato alla facoltà, e senza avere ancora ottenuto una risposta elaborata, comincia a fare domande difficili ai professori, i quali offrivano spiegazioni materialiste, e ai medici, che trattavano i pazienti con freddezza. Grande lettore, riprende i pensieri di Pascal. Li aveva studiati al liceo e aveva persino portato il libro con sé nel viaggio verso la casa della madre morente. È un pensatore occidentale vicino alla mentalità giapponese, pensò.
Bisognoso quindi di riflettere su questa esperienza, trascorre cinque anni con la domanda sul senso della vita. In parte, la lettura di Pascal lo porta a conoscere i cristiani. Un problema acustico gli aveva impedito di praticare la medicina in molti campi, per cui si specializza in radiologia, consapevole dell’alto rischio dovuto alla scarsa protezione dagli effetti dei raggi X.
Si trasferisce presso una famiglia cattolica. Quando arriva il Natale, è invitato a unirsi a loro nella celebrazione liturgica. Poi si innamora della figlia, Midori, e si fa battezzare, aggiungendo il nome Paolo, e la sposa. Hanno due figli. Soffre la tragedia di Nagasaki. L’esplosione atomica fulmina sua moglie. Fortunatamente i suoi figli erano con la nonna in una città vicina. Takashi Paolo Nagai aiuta in seguito molti giapponesi ad accettare la Divina Provvidenza, che ha permesso questi sacrifici come mezzo per la pace. Per questo sarà ricordato come il medico che guarì i cuori.
Molti medici, operatori sanitari, infermieri e sacerdoti hanno avuto esperienze simili in questi mesi di pandemia. Sono stati capaci di ascoltare con empatia, e in molti casi di leggere negli occhi del paziente atti spirituali di amore e gratitudine. Ho sentito alcuni infermieri e medici raccontare questi incontri con grande emozione.
Nel caso di Nagai c’è qualcosa di particolare. Ha già una certa esperienza nel visitare i malati. Ma la sua condizione di figlio gli permette di guardare negli occhi di sua madre in modo così penetrante che scopre qualcosa di nuovo per lui e contraria alla sua mentalità scientifica: la realtà spirituale del mondo interiore di sua madre. Riesce anche ad esprimerlo e a farne principio di vita.
Quando l’ho letto alcuni anni fa, mi ha colpito sembrandomi come una dimostrazione della metafisica viva del filosofo e poeta Carlos Cardona, che ha saputo trasmetterla a diversi colleghi della mia generazione. Nelle conversazioni con Carlos e nelle sue lettere erano sempre presenti alcuni aspetti di questa metafisica vivente: la conoscenza per connaturalità e la comprensione intellettuale del singolare concreto, quando altri filosofi sottolineavano solo concetti universali e astratti; etica e metafisica apparivano ben unite.
Secondo Cardona “il tema capitale della filosofia è un problema umano, dell’uomo in tutto il suo essere, estraneo a quell’atmosfera asettica della ‘filosofia pura’, sostenitrice di una metafisica amorale e di una morale ametafisica, che ha finito per dissolvere la morale togliendo il suo fondamento metafisico, dopo aver dissolto la metafisica togliendo il suo impulso morale. Il cuore non è mai estraneo alla verità”.
L’opzione immanentista di gran parte della filosofia successiva a Descartes ha probabilmente avuto come effetto la disgregazione sociale: una società di individui, che oscura o indebolisce la società delle famiglie. Allo stesso tempo, si sono diffusi acriticamente anche dualismi irrealistici, per esempio tra natura e libertà, tra libertà e donazione, e un oscuramento del bene comune. Lentamente nel XX secolo, alcune tendenze filosofiche come la fenomenologia, il personalismo e il pensiero dialogico hanno cercato di recuperare la realtà persa lungo la strada. In termini artistici, c’è stata una riscoperta della scuola di Atene di Raffaello, di una pienezza maggiore del nudo pensatore solitario di Rodin.
Solo a titolo di esempi stimolanti per me, penso ad autori come Etienne Gilson, Joseph Pieper, Antonio Millán-Puelles, Cornelio Fabro, Leonardo Polo, Jaime Bofill, Francisco Canals. E più recentemente Karol Wojtyla, Robert Spaemann, Juan José Sanguineti, Rafael T. Caldera, Rémi Brague, Roger Scruton, Alasdair MacIntyre, Robert Sokolowski, Enrique Martínez.
Parte di questo pensiero che è tornato al concreto e familiare si è formato in filosofi con radici ebraiche. Una discepola di Cornelio Fabro, Paola Ricci Sindoni, lo ha ricordato nella nostra Università con i suoi scritti sull’ebraismo di Franz Rosenzweig, Abraham Joshua Heschel, Edith Stein, Simone Weil, Hannah Arendt e con i suoi magnifici commenti al libro di Tobit e al dialogo di Gesù con i discepoli scoraggiati di ritorno a Emmaus.
Noi filosofi potremmo ricordare più spesso e con maggiore profondità vitale che siamo tutti figli, frutto dell’amore dei nostri genitori. Abbiamo in proprietà un essere ricevuto dotato di una relazione filiale permanente con coloro che ci hanno dato l’essere, perché sono dotati di una creatività partecipata. Questo è un aspetto di superiorità rispetto ai puri spiriti angelici. Ognuno di noi è un novum irripetibile, con un nome ricevuto.
Un importante campo di conoscenza della realtà, che è strettamente legato al volto umano, è il linguaggio. Si impara a parlare e a conoscere la realtà allo stesso tempo in un clima di fiducia e di amore. La profondità del linguaggio umano del bambino fin dalla più tenera età è sorprendente. Il teologo svizzero H.U. von Balthasar ha saputo esprimere molto bene come il bambino tra le braccia amorevoli di sua madre fa esperienza di quelle proprietà della realtà che conosciamo come i trascendentali: “Un bambino è chiamato all’autocoscienza dall’amore e dal sorriso di sua madre”.
Rémi Brague ha ben descritto il pessimismo culturale europeo, mostrando che l’aspetto della realtà più in crisi nella nostra conoscenza è quello della bontà. Naturalmente, questa osservazione ci porta a pensare alla famiglia. Thomas Melendo riassume molto bene il ruolo educativo dei genitori dicendo che la cosa principale è che i coniugi si amino veramente. I bambini se ne rendono conto e questo amore li fa forti di fronte alle difficoltà esterne. Un’esperienza singolare nella direzione opposta è quella del francese Tim Guenard nel suo libro autobiografico “Più forte dell’odio”. Ad appena tre anni fu abbandonato dalla sua giovane madre, che aveva solo 19 anni. La polizia lo trovò e lo consegnò a suo padre, che lo trattò molto male per lungo tempo. Crebbe con l’odio a suo padre e nutrendo sentimenti di vendetta, con la voglia di diventare molto forte e duro per ucciderlo. Finalmente trovò un ambiente cristiano e nacque in lui il desiderio di imparare ad amare e a perdonare. L’esperienza inaspettata di un ambiente familiare, che non aveva mai avuto prima, gli permise di vedere la realtà con quella proprietà fondamentale di bontà, che a Brague manca nella cultura dominante.
La filosofia non è un gioco intellettuale, ma saggezza per vivere. Cardona lo spiegava a T. Melendo così: “La metafisica è affare di tutti. In parte, si giocano la vita eterna”. Forse per questo mi è rimasta impressa la confidenza espressa da San Giovanni Paolo II a un gruppo di partecipanti a un volume sul suo pensiero. Uno di noi è intervenuto ricordando che San Paolo diceva: pietas utilis ad omnia. Con la sua caratteristica pace, il Papa ha risposto qualcosa come: lo so, lo so, ma dico anche che metaphysica utilis ad omnia. Cercando di scoprire la fonte gli ho chiesto di chi fosse la frase. Risposta: l’ha detto un mio professore e credo che sia vero.
Non ho scritto qui che la filiazione umana rimanda alla filiazione divina. Anche perché lo spirito immortale che Nagai scopre in sua madre non può avere altra origine che un Dio che ha creato per amore. E la filiazione divina ci permette di amare la croce. Meglio: scoprire che la sofferenza, la donazione totale richiesta dalla famiglia, ha un significato che ci riempie di gioia.
Concludo con un’intuizione di San Josemaría in una meditazione del 28 aprile 1963: “Quando il Signore mi dava quei colpi, verso l’anno trentuno, io non lo capivo. All’improvviso, in mezzo a tanta amarezza, quelle parole: ‘Tu sei mio figlio’ (Sal 2, 17), tu sei Cristo. Io riuscivo solo a ripetere. ‘Abbà, Pater!; Abbà, Pater!; Abbà!, Abbà!, Abbà!’. Ora lo vedo in una luce nuova, come una nuova scoperta: come si vede, col passare degli anni, la mano del Signore, della Sapienza divina, dell’Onnipotente! Tu hai voluto, Signore, che io comprendessi che avere la Croce è trovare la felicità, la gioia. E la ragione — lo vedo più chiaro che mai — è questa: avere la Croce è identificarsi con Cristo, è essere Cristo e, perciò, essere figlio di Dio».
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